“Cura e Vita – Associazione Antonio Sarcina”: la consegna del premio al miglior infermiere laureato

“Cura e Vita – Associazione Antonio Sarcina”: la consegna del premio al miglior infermiere laureato

lunedì 15 luglio 2024

Si è tenuta questa mattina la consegna del premio annuale da parte dell’associazione “Cura e Vita-Associazione Antonio Sarcina”, rivolto al miglior infermiere laureato del corso di Laurea in Infermieristica promosso da Università Cattolica e da Fondazione Poliambulanza.

Presenti in sala la Presidente dell’associazione Cristina Gavio, il Presidente di Poliambulanza, prof. Mario Taccolini, il Direttore Generale, Dott. Marcellino Valerio, il neo direttore sanitario, il Dr. Angelo Meloni, il direttore dell’UOC di Chirurgia Vascolare, Dr. Bellosta Raffaello e la responsabile del servizio infermieristico Dott.ssa Letizia Bazoli.

A consegnare il premio Cristiana Gavio, presidente dell’associazione e moglie del Dr. Sarcina, intervenuta con un appassionato discorso nel quale ha sottolineato l’importanza della relazione tra chi cura e chi viene curato. “I pazienti custodiscono nel cuore le stesse domande sulla vita e sulla morte, sulla gioia e sul dolore: la malattia è l’occasione di guardarsi a vicenda così, è l’occasione di un rapporto, non il contenuto di esso.”

Il premio è stato consegnato alla dott.ssa Giada Felappi, infermiera presso il reparto di Oncologia dell'ospedale, per lo straordinario impegno messo nel proprio percorso di studi e lavorativo.
Da parte di Fondazione Poliambulanza le più sincere congratulazioni e i migliori auguri per il futuro.

 

 

Di seguito il discorso di Cristina Gavio

 

Sono sempre molto lieta di poter essere in questo luogo di cura ,che considero un po’ anche casa mia( e negli ultimi dodici mesi lo è stata un po’ di più nel reparto di Ortopedia ,dove il dr.Flavio Terragnoli e la sua équipe si sono presi cura delle mie malandatissime ginocchia in modo magistrale, trasformandomi in una donna bionica e migliorando in modo decisivo la qualità della mia vita. Ho esaurito le ginocchia, ma chi può dire che sia l’ultima volta?) e sono particolarmente felice di poter consegnare il premio che Cura e Vita, l’associazione nata per ricordare mio marito Antonio che qui ha speso gli ultimi vent’anni della sua vita professionale, dedica ogni anno ad un infermiere laureato in Scienze infermieristiche, nel corso di laurea che Poliambulanza gestisce insieme ad Università Cattolica.
Quest’anno premiamo la dottoressa Giada Felappi ,che lavora qui nel reparto di Oncologia, e la prima cosa che mi sento di dire, scorrendo con attenzione le sue note professionali e il suo percorso personale è che Giada è abituata a guardare: non solo a vedere, ma a fissare lo sguardo per scorgere la domanda che la realtà pone, che l’altro pone.
Nel Buon Samaritano di van Gogh il Samaritano non solo ha visto l’uomo ferito, ma si è soffermato a guardare, come Gesù che vide le folle, le guardò ed ebbe pietà di loro, perché erano stanche e sfinite come pecore senza pastore.

È quello sguardo che ci fa prendere in carico l’altro, nella sua fragilità piena di domande, come il buon Samaritano di van Gogh prende il ferito tra le braccia per poterlo issare sul cavallo, è quello sguardo che cambia l’altro e cambia anche noi.
“C’è bisogno di intuizione, di un’ininterrotta logica del cuore, di una impalpabile leggerezza dell’essere se ci si vuole accostare al mistero del guardare.” Eugenio Borgna

Ciò che guardo mi riguarda. L’oggetto della cura diviene anche soggetto e determina un cambiamento in chi si prende cura, questo ci dice l’opera di Krogh “La ragazza malata”
A chi ha il compito di curare viene rivolta al fondo questa domanda: ci sarai, mi potrò fidare di te, sarai sempre al mio fianco, mi darai aiuto in quello che potrà accadere?
Chi cura e chi è curato custodisce nel cuore le stesse domande sulla vita e sulla morte, sulla gioia e sul dolore e la malattia è l’occasione di guardarsi a vicenda così, è l’occasione di un rapporto, non il contenuto di esso.

Se vuoi, puoi curarmi!: è il grido di ogni malato. Puoi migliorare la mia vita ora, cioè puoi accompagnarmi supportandomi in quello di cui ho bisogno, con-solarmi, rimanere con me che sono solo per aiutarmi ad avere speranza. Questo è lo sguardo vero di chi cura. Oggi invece la mentalità corrente ci suggerisce malevolmente “se non posso guarirti, non ti guardo”, ti isolo, ti relego lontano da me ,dove io non ti possa vedere, perchè guardarti riapre domande che non devono avere cittadinanza.
La cura non è una somma di prestazioni, l ’ospedale non può essere solo un’organizzazione efficiente e performante. Ricordiamo che la parola ospedale nasce dal termine hospitale, luogo di accoglienza e di cura, luogo in cui si cura un paziente, non solo le sue parti guaste. A volte mi domando ascoltando racconti di amici medici e infermieri quanto questo pericoloso fraintendimento sia alla base dei fenomeni di burnout del personale sanitario, che poi erroneamente attribuiamo solo al carico o alle condizioni di lavoro. Credo che sia lo stesso motivo per cui un paziente può percepire una scarsa qualità nella cura, pur avendo ricevuto una prestazione di altissima qualità.
Che diversa prospettiva in queste parole di Christiane Singer, regista e scrittrice australiana che scopre di essere seriamente malata e decide di tenere un diario di bordo dei suoi ultimi mesi di vita, pubblicato col titolo “Ultimi frammenti di un lungo viaggio”: “C’erano una volta troppe cose che facevo senza prestare loro attenzione né cuore, e senza mai sapere a cosa imputare la caduta di qualità che si manifestava nel quotidiano.
Stava semplicemente nella perdita di intensità, di contatto tra la mia coscienza e i gesti che ponevo su questa terra…Sì, la mia malattia apre spazi inattesi per molti altri…una forza sembra risvegliarsi, che dice loro: ormai non c’è più da tergiversare, né da fare anticamera: occorre entrare nella vita e subito!” e in una lettera scritta ad un amico: “Che gioia vivere e continuare a cullare il modo con voi! Ma non vedo l’ombra di un fallimento se un’uscita diversa mi attende. Tutto è vita, sia che io viva, sia che io muoia…Si tratta solo di vivere ciò che si incontra.”
E Léon Bloy “…l’uomo ha nel suo povero cuore degli angoli che non esistono ancora e dove il dolore entra per portarli all’esistenza.”
Nicole Carrè, psicoterapeuta e scrittrice, che affronta una grave malattia con scarse probabilità di guarigione, in un percorso che vedrà remissioni e recidive con una sorprendente guarigione finale, ci racconta nel suo libro “ Preparare la propria morte. Un inno alla vita”: “…sono convocata a vivere l’istante, a questo punto è l’intera mia vita che è chiamata a fare corpo unico con esso…entrando nell’amore della vita e nella paura di morire diventavo più vera, cioè più umana…per me si trattava di incominciare a vivere veramente, accettando di non potere tutto…il mio essere guariva, anche se il mio corpo non guariva. Guarire è scegliere la vita…vivere l’istante presente essendoci totalmente. L’importante è consentire. Adesso.”
La densità dell’istante è cruciale per chi cura e per chi viene curato, una presenza presente, non l’onniscienza o l’infallibilità.

Questo auguro di tutto cuore a Giada. Ma sono certa che questa attitudine, oltre alla competenza, alla dedizione, alla professionalità, fa già parte del suo bagaglio umano e professionale.